I miei amici aquilani lo sanno tutti: ero appena sceso dall’aereo proveniente dal paradiso brasiliano quando mi sono ritrovato nell’inferno del terremoto. Primi collegamenti dall’ospedale e un mese abbondante tra le tende. Da allora sono passati esattamente dieci anni che sembrano un’eternità ma che rispetto alle grandi tragedie invece non sono niente. Fra tre giorni torno all’Aquila. Non è certo la prima volta, sono già venuto per “Volta la carta”, definita dagli organizzatori la “tre giorni per la ricostruzione dello spirito” ma presumo che al convegno di venerdì al Palazzetto dei Nobili si parlerà di cose più pragmatiche. Sono tornato più volte nella caserma degli Alpini per quella strana connessione che mi unisce al centro abruzzese anche per l’esperienza in Afghanistan.
C’è in realtà qualcosa di molto forte che mi unisce all’Aquila. Non so, forse il terremoto è solo un pretesto perché ne ho seguiti molti altri: da quello umbro-marchigiano lungo sei mesi a quelli all’estero, in Pakistan, in Iran, a San Francisco. Per non dire di Ancona dove vivevo e sono stato sfollato. Dunque i motivi sono altri ma non so spiegarmi il legame, probabilmente la condivisione del grande dolore, forse lo scoprirò in questo fine settimana – nonostante il torcicollo – felice anche di presentare “Dittatori”, il mio dodicesimo libro, la mattina di sabato davanti agli studenti che sono da sempre i miei interlocutori preferiti. Forse insieme riusciremo a parlare di un altro “terremoto” devastante che non riguarda le case, la città, ma la storia, tutti noi, in quest’Italia bellissima, ma fragilissima. Sempre a rischio. L’intervista
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