E’ dal disfacimento dell’impero ottomano che ci s’interroga sulla natura del Medioriente, quel mosaico di etnie, religioni, culture su cui un secolo fa le potenze straniere tracciarono, con l’arroganza dei vincitori, confini destinati a stridere sin dal giorno successivo alla partizione (il merito del “disegno” va al britannico Sir Mark Sykes e al francese François Georges-Picot). Non a caso gli arabi contemporanei sono particolarmente sensibili all’argomento, temendo, al solo menzionarlo, un nuovo complotto occidentale per dividerli e indebolirli ancora una volta. Eppure, da due anni a questa parte, le cose stanno cambiando davvero. Rinvigorite dalle involontarie conseguenze delle primavere arabe, le forze centrifughe di identità diverse e spesso rivali stanno mettendo a ferro e fuoco una regione che per la prima volta, nel 2011, è parsa voler cercare un ruolo non “commissariato” nello scacchiere geopolitico mondiale con gli egiziani, i tunisini, i libici, gli yemeniti e i siriani determinati a rivendicare il proprio diritto all’autodeterminazione con buona pace dei dittatori locali. Quale sarà dunque la natura del Medioriente quando il vento della primavera araba si sarà calmato? La giornalista Robin Wright abbozza sul New York Times una mappa ipotetica in cui, al termine del terremoto in corso, da cinque paesi (Siria, Libia, Yemen, Iraq, Arabia Saudita) ne verrebbero fuori quattordici. Francesca Paci segue
M’arincresce… ma drento la mi’capocci la tera è tutta verde unita, co er mare azurro